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Editoriale

Odore di cloro- La testimonianza dell'ex giocatore Antonio Mollo

  Pubblicato il 02 Apr 2121  13:25
Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita.
Si metteva seduto in disparte, guardava, scrutava, appoggiava il mento nella mano. A volte scambiava due chiacchiere con uno dei genitori dei miei compagni, con quelli che parlavano meno di lui. Non mi hai mai criticato né esaltato. Tentava di mantenere una certa neutralità.
“Je faccio ‘o psichiatra guagliò, conosco le conseguenze dell’emotività”. Ero un adolescente, 15/16 anni e non capivo fino in fondo quella frase. Sebbene mi sforzassi di comprendere, non mi capacitavo di come potesse non lasciarsi coinvolgere da uno sport molto emozionante, soprattutto se visto dal vivo. Uno sport maschio, dove si combatte, si danno e si prendono botte, dove ci si sacrifica anche più del dovuto e davvero faticoso. Tra l’altro giocavo io, suo figlio, sangue del suo sangue. Ed ero uno di quelli -‘o mastino, mi soprannominò il mio allenatore- che in acqua ringhiava, che viveva le partite come una battaglia, che quando scagliava il pallone verso la porta lanciava verso quei pali galleggianti tutto il suo condensato di grinta, passione e voglia di vincere.
Questo era per me la pallanuoto.
Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita.
Tranne una.
Dicembre 2006, categoria allievi. All’epoca era prevista una formula per cui si giocava anche il campionato nazionale invernale che era una sorta di anticipazione del campionato che terminava in estate o a settembre.
Si giocava a Napoli, alla Scandone, uno dei templi della pallanuoto nazionale e internazionale.
Capirai: avevo il sangue agli occhi. Ero molto carico, ma non fino al punto da aver disperso le energie necessarie per affrontare al meglio le partite. Cosa che capitava.
Ero concentrato, determinato. Mi allenavo con la diligenza di un tuffatore cinese e infatti ero in un periodo di splendida forma. Ero tra i migliori della classe ’89-’90, nonostante fossi uno dei meno dotati fisicamente. Cioè, per la “vita normale” ero abbastanza dotato: 16 anni, 1,72 cm, 64 Kg, fisico atletico, spaccato direi. Ma quasi tutti i miei compagni di squadra erano anche il doppio di me, in altezza e in peso.
Tentavo di colmare questo gap con la grinta, la “garra” direbbero i calciofili amanti del campionato spagnolo e con la cura nell’allenare alcuni particolari tecnici come la “palomba”, il tiro dalla parabola arcuata che, se eseguito a dovere, è imprendibile. Quando vedevo la palla insaccarsi alle spalle del portiere “seduto”, immobile, provavo una sensazione di goduria e onnipotenza infinita. Piccole gioie di un giovane sportivo.
Inizia il concentramento napoletano e dò subito il meglio di me. Girone abbastanza abbordabile per noi.
 
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Fotografia: Roberto Polverino