28 settembre 1992
Erano passati oltre quattro mesi, ma non erano ancora cominciati i processi a carico di Sergio De Matteis e Anna Laura Campese per l'uccisione dei due pallanuotisti. Era salita a mesi sei, invece, la relazione tra Gianni Arnò e Silvia Borrelli, un record per il commissario. Il precedente primato risaliva al 1979, quando Arnò era a Milano: quattro mesi e mezzo con Lena, una modella svedese che faceva la spola tra Stoccolma e la Madunina. I continui viaggi di lei avevano prima alimentato il rapporto tra i due (ad Arnò andava benissimo la relazione a singhiozzo), poi lo avevano progressivamente spento. La causa del raffreddamento si chiamava Erland, uno spilungone svedese che Lena aveva conosciuto in patria e che sarebbe diventato poi suo marito. Quando la donna gli diede il benservito per telefono, Arnò non la prese bene e chiuse la conversazione con un "Ma va a ciapal in del lisca, coo d'una gaina!" che compromise decisamente le possibilità di essere almeno invitato al matrimonio. Non era stato colpito al cuore, il commissario, a rimanere ferito era stato il suo ego. Come dire: è mai possibile che abbia preferito un Erland qualsiasi a me? Ma soprattutto non gli andava giù il fatto che era stata lei a scaricarlo. "La prossima volta che mi capita...".
Gli era capitata, ma non aveva la benchè minima intenzione di scaricare Silvia. I 15 giorni di vacanza trascorsi insieme in Corsica avevano cementato ulteriormente l'unione e il commissario si stava via via convincendo che andare a vivere insieme era una soluzione che meritava prima o poi di essere presa in considerazione.
Era un Arnò completamente rigenerato, quindi, quello che a metà settembre aveva ripreso servizio in Questura dopo le ferie. L'assenza di casi particolarmente spinosi, inoltre, gli aveva permesso di riacclimatarsi senza traumi, ma sapeva che la quiete non sarebbe durata a lungo. E infatti, alle ore 9 di venerdì 28 settembre, il vice commissario Francese lo accolse in Questura con un "Hanno trovato un cadavere a via Consalvo".
"Non mi dire che è un altro pallanuotista...".
"No, si tratta di un antiquario, e a quanto pare non è stato ammazzato. Si chiamava Filippo Palladino. Stamattina lo hanno trovato impiccato nel retro del negozio. Ci ha telefonato il suo giovane di bottega, tale Francesco Ramagli".
Via Consalvo, la strada di Napoli che sicuramente detiene il record mondiale di tombini. Sono centinaia, "un giorno o altro devo contarli", disse Francese ad Arnò mentre erano diretti in auto verso il civico 148 dove c'era il negozio di Palladino.
Il commissario si mise a ridere. Non per i tombini o per l'intenzione del suo vice di stabilire l'esatto numero delle "saettelle" (il sinonimo dialettale di tombini che ad Arnò piaceva moltissimo), ma perchè gli era tornata alla mente la scena dell'esilarante film "Totòtruffa 62" nella quale il buffo personaggio interpretato dall'attore napoletano Pietro De Vico conta i piccioni, non ricordava Arnò se a Piazza San Marco o in Piazza del Duomo a Milano.
Una scena ben differente da quella, purtroppo reale, che videro quando entrarono nel negozio. Filippo Palladino era appeso ad una trave del soffitto nel retrobottega, un vano angusto nel quale l'antiquario aveva sistemato il suo ufficio (una piccola scrivania, una sedia e un armadietto, non c'era spazio per altro) e da dove partivano le scale che conducevano all'abitazione del negoziante. Dopo che il cadavere fu rimosso, Arnò trovò addosso al morto una patente di guida, una carta d'identità e un portafogli con 25mila lire. Tirò un sospiro di sollievo quando sulla carta d'identità, dopo i dati anagrafici e i dati personali (nato a Napoli il 28 luglio 1924, altezza 1,69, capelli brizzolati, occhi castani) lesse alla voce "stato civile" la parola celibe. Non c'erano moglie e figli che avrebbero sofferto per la sua morte.
Mentre nel retrobottega fece il suo ingresso Ferdinando Barbato (il medico legale avrebbe poi confermato che si trattava effettivamente di suicidio), il commissario raggiunge nel negozio il giovanotto che aveva trovato il cadavere e che aveva avvertito la Polizia. Biondo, un metro e novanta circa, Francesco Ramagli era magro come un chiodo, cosa che lo faceva sembrare ancora più alto. Arnò se lo vedeva più su un campo di basket a tirare a canestro che in un negozio a spolverare anticaglie.
"Mi racconti come ha scoperto il cadavere".
"Ieri sera, alle 19.30, ho chiuso il negozio dopo aver salutato il signor Palladino, che è rimasto dentro. Lui abita qui, nel retrobottega c'è una scala che porta direttamente all'abitazione".
"Si, l'abbiamo vista. Vada avanti".
"Prima che me ne andassi mi ha detto di non spegnere l'interruttore generale della corrente, voleva fare un po' di conti prima di salire a casa. Almeno così mi ha detto. Invece, quando stamattina ho riaperto il negozio l'ho trovato lì... Gesù, ma perchè l'ha fatto?".
"Come le è sembrato quando lei ha lasciato il negozio?".
"Normale, come sempre. Insomma, non pareva proprio uno che sta per suicidarsi".
"Gli affari come andavano?".
"Direi bene, il negozio aveva una discreta clientela. Il signor Palladino era molto bravo nel suo lavoro: trascorreva il sabato, e qualche volta anche la domenica, a rintracciare qua e là pezzi di valore che acquistava a poco prezzo e rivendeva guadagnandoci sopra parecchio. Sicuramente ci sapeva fare".
Un ragazzo sveglio. Era questa l'impressione che il giovanotto aveva dato ad Arnò dopo le prime risposte, tutte chiare ed essenziali, come piacevano a lui e probabilmente a tutti i commissari di questo mondo. "Palladino aveva parenti?"
"Che io sappia, nessuno qui in città. C'è una sorella, poco più giovane di lui, ma da più di vent'anni vive in Australia".
"Amici?".
"Non credo proprio, commissario. Faceva una vita molto riservata, casa e negozio. Si allontanava solo per fare le sue ricerche di pezzi d'antiquariato. Non andava neppure in vacanza, il negozio rimaneva aperto anche ad agosto".
"Chi si occupava delle faccende domestiche?".
"Nessuno. A riordinare la casa ci pensava lui, la roba sporca la portava nella lavanderia qui di fronte. La sera si faceva lui stesso da mangiare e a pranzo andava sempre nella stessa trattoria, a trecento metri da qui, oppure - quando c'era parecchio lavoro in negozio - si faceva un panino che consumava nel retrobottega durante la chiusura pomeridiana".
"La ringrazio molto, può andare. Chiuda pure la saracinesca, noi usciremo dall'ingresso del palazzo".
***
"Qui si mangia bene". Non era uno slogan, era proprio il nome della trattoria di via Consalvo dove Palladino andava a mangiare. "Qualche volta ci dobbiamo venire pure noi", disse Francese ad Arnò dopo aver dato un'occhiata al menu affisso sulla vetrata accanto alla porta d'ingresso (i prezzi erano ottimi) e dopo aver visto, entrando, che il locale era accogliente e pulito. Napoli era disseminata di quel tipo di ristoranti, molti dei quali portavano sull'insegna la scritta "Vini e cucina". A pranzo erano frequentati per lo più da studenti universitari, impiegati di banca o da piccoli negozianti, la sera la clientela era più variegata: non era difficile trovare agiati professionisti oppure ricchi commercianti con compagne ingioiellate, attirati più dal fatto che era di moda andare a mangiare in quei locali che dalla sostanza: il più delle volte si pagava poco e si mangiava bene.
Erano quasi sempre locali molto piccoli, con tavoli a quattro posti o al massimo sei. Quelli più grandi non andavano bene, troppo ingombranti. Di questo tipo di trattorie Arnò era diventato assiduo frequentatore, anzi "collaudatore". Ogni giovedì sera, cascasse il mondo, lui e Barbato si mettevano a perlustrare i quartieri antichi di Napoli alla ricerca di trattorie sconosciute e nuove pietanze da sperimentare. E a fine serata, nel tornare a casa, si divertivano a dare i voti a ciò che avevano mangiato. Per il momento, il massimo dei voti era stato assegnato dal commissario ad una pasta e ceci che aveva mangiato in una trattoria nei paraggi della stazione centrale, mentre Barbato aveva premiato anche con la lode il baccalà in umido, di cui ovviamente aveva fatto il bis, nel quale si era imbattuto in un piccolo locale di "Spaccanapoli", la strada lunga quasi un chilometro che divide in due la città e che da via Magnocavallo, sulla sommità dei Quartieri Spagnoli, porta a via del Duomo, dove ogni 19 settembre si ripete il Miracolo di San Gennaro.
Ma, anche se era in quella città da soli due anni, Arnò aveva già capito che il vero miracolo lo faceva - e ogni giorno - la gente di Napoli, costretta a convivere con i disagi creati da amministratori che poco o nulla facevano - a qualsiasi colore politico appartenessero - per risolvere i problemi di una città che il commissario considerava nello stesso tempo la più affascinante e la più invivibile al mondo. "La pazienza di Giobbe - diceva spesso Arnò a Francese - era davvero poca cosa al confronto di quella dei napoletani".
Napoletanissimo era il titolare della trattoria "Qui si mangia bene", Rosario Cozzolino. Non fu per nulla sorpreso dall'arrivo della Polizia, il vento del "passaparola" aveva già percorso da un paio d'ore i trecento metri che separavano il suo esercizio dal negozio di Palladino portando con sè la notizia della morte dell'antiquario. "Era un uomo molto riservato", disse Cozzolino ai due inquirenti infarcendo il racconto con il gesticolare di due mani enormi, sproporzionate rispetto al suo metro e sessantacinque. "Mangiava sempre da solo, commissario, e le dirò subito che quando veniva non facevo salti di gioia. Primo, perchè mi occupava un intero tavolo, secondo perchè a me piacciono le persone di compagnia. Era da almeno tre anni che veniva qui: le prime volte ho cercato di attaccar bottone parlando di calcio, ma poi - visto che praticamente non avevo risposta - ho lasciato perdere".
Solitario, taciturno, appassionato soltanto del suo lavoro. Era tutto qui, si chiese Arnò, l'antiquario Filippo Palladino? Perchè, se davvero non c'era altro, gli sembrava improbabile che avesse deciso improvvisamente di farla finita. Dov'era il movente?
Per saperne qualcosa di più, per capire perchè quell'uomo si era tolto la vita apparentemente senza motivo, quella sera, prima di rientrare a casa, Arnò tornò nell'appartamento di Palladino. E fu per caso, assolutamente per caso, che scoprì la verità, tutta la verità.
In camera da letto, nel cassetto del comodino, trovò un astuccio da gioielliere, di quelli che contengono collane o braccialetti. Ma dentro non c'era un gioiello, c'era una chiave antica. Sembrava appartenere ad un secretaire, ad un vecchio cassettone. L'avesse trovata in una casa qualunque, non ci sarebbero stati problemi a rintracciare il mobile al quale apparteneva, ma quello era l'appartamento di un antiquario...
Cominciò una caccia al tesoro che durò più di un'ora. Provò prima con tutti i mobili antichi dell'appartamento, niente da fare...
Scese in negozio. La ricerca non fu noiosa, gli piacevano moltissimo le cose antiche. Si intrattenne più volte ad ammirare cassapanche, comò, lampadari d'epoca... S'innamorò a prima vista di una vecchia stufa a legna: se fosse stato un ladro, era la prima cosa che avrebbe portato via. Ma era un commissario, e s'incazzò moltissimo per l'esito negativo della sua ricerca: "Non apre nemmeno questo, maledizione! E adesso?".
Fosse stata una chiave normale, poteva anche appartenere a qualcosa che non si trovava in quella casa. Ma era una chiave antica, doveva per forza aprire qualcosa che stava lì, oppure nell'appartamento. Tornò di sopra e, salendo delle scale, si diede dell'imbecille: "Ma chi ha detto che questa chiave deve per forza aprire un mobile?".
Cominciò una nuova ricerca, che diede quasi subito l'esito sperato: dietro un quadro appeso in salotto c'era un piccolo armadietto a muro. Dentro, assieme ad alcuni documenti riguardanti l'acquisto di mobili, trovò un pacco di riviste pornografiche, una busta e un quaderno nero. La busta conteneva una dozzina di foto, tutte di adolescenti, alcuni completamente nudi, altri con indosso solo lo slip. Il quaderno nero era un diario.
Cominciò a sfogliarlo. Quando lesse ciò che stava scritto nella pagina corrispondente al 30 aprile 1992, per poco non gli venne un colpo: "Ha telefonato Saggese, stavolta vuole 10 milioni. Non ho intenzione di pagare". 30 aprile, due giorni prima dell'uccisione del capitano della Blue Sky.
Andò immediatamente al 2 maggio: "E' stato terribile, ma ce l'ho fatta. Mi sono liberato di quella sanguisuga". Il diario finiva lì.
Poco distante dall'armadietto, poggiato su una colonnina di marmo, trovò un piccolo registraore portatile. Dentro c'era una cassetta. Schiacciò il pulsante Play... "gridò lo sposo e poi, tutti pensarono dietro ai capelli...". Riconobbe subito "Alice non lo sa" di De Gregori, ma benchè gli piacesse moltissimo non era quello il momento per ascoltarla. Pigiò su Rewind, il nastro si avvolse. Schiacciò nuovamente il pulsante Play: un breve fruscio e poi... "Non ce la faccio più a vivere con il rimorso. Non ce la faccio. Ci ho provato, ma rivedo sempre quella scena...".
Era andata così:
Palladino attese seduto in macchina che Saggese tornasse a casa. Quando lo vide, aspettò che salisse nell'appartamento, scese dalla vettura e andò al citofono per farsi aprire. "...la mano mi tremava, ho sbagliato numero. Ho riprovato, stavolta era proprio lui. E' stata la voce di quel bastardo a darmi la forza di agire: "Ah, è lei. Salga, salga...".
Prese l'ascensore, pronto a tornare immediatamente indietro se avesse incontrato qualcuno. Ma non c'era nessuno. "...quando mi ha aperto la porta e ha visto la borsa, pensava che dentro ci fossero i soldi. Mi ha detto di seguirlo in cucina e si è voltato. Ho aperto la borsa, ho preso il coltello e con tutte le mie forze l'ho colpito alla schiena".
Dopo essersi accertato che Saggese era morto, Palladino andò nella camera da letto per cercare qualcosa con cui camuffarsi. "...adesso che l'avevo ucciso, non potevo correre il rischio di farmi riconoscere se andando via avessi incontrato qualcuno".
Prese un giaccone, una sciarpa e un berretto con la visiera. C'era scritto sopra Blue Sky. "...mi sono guardato allo specchio e mi sono messo a ridere: vestito così, tutto infagottato, se mi avessero visto mi avrebbero preso per pazzo".
Ma non lo vide nessuno. Riprese l'ascensore - era rimasto al piano - uscì dal palazzo, risalì in macchina e tornò a casa. "Quando mi sono sentito finalmente al sicuro, sono scoppiato in una risata irrefrenabile: non solo avevo risparmiato dieci milioni, avevo recuperato pure i cinque che gli avevo dato il mese prima. Li ho trovati ancora intatti mentre cercavo tra la sua roba degli abiti da indossare. Ma tutta l'allegria di quel momento è svanita presto... pur di tornare indietro, pur di trovare pace, oggi io darei tutto quello che ho, altro che 15 milioni! Ma non è possibile, perciò ho deciso di farla finita. Chiedo scusa a tutti, soprattutto alla donna che sta pagando al posto mio in carcere".
Il commissario tolse la cassetta dal registratore, rimise a posto le riviste pornografiche e la busta con le foto. Richiuse l'armadietto e ripose la chiave nel comodino. Nel lasciare l'appartamento portò con sè soltanto il diario e la cassetta. Era quasi mezzanotte.
Domani, pensò Arnò mentre scendeva le scale, Anna Laura Campese tornerà libera. Libera di fare ancora del male. Uscendo dal portone vide sull'altro marciapiede un cassonetto della spazzatura. Attraversò la strada, si guardò intorno, non c'era anima viva.
Mario Corcione
FINE
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