Attendere prego...

Archivio News

Waterpolo People

Ecco chi ha ucciso il Maestro di violino (nona e ultima puntata)

  Pubblicato il 26 Gen 2118  03:53
LA NONA E ULTIMA PUNTATA
Sabato 22 agosto, a tardo pomeriggio, prendemmo l’ormeggio a Borgo Marinari e scendemmo a malincuore dall’Alpa, nostra silenziosa amica e complice nei ricordi degli anni a venire, lasciando a bordo ben più di quanto non avessimo imbarcato alla partenza.
Accompagnai Nadia a casa con il cinquino; non era ancora ora di cena e il parco era tutto un vocio di bambini e di comari sedute sotto i fabbricati, pronte a non perdersi la minima occasione di farsi i fatti degli altri.
“Patrizzzzzia, tuorna accà” urlò una grassona alla figlia, una bambina di una decina d’anni, “quante volte ti devo dire che non ti devi allontanare, ca si ‘na bella piccerella e ‘o munno è chino ‘e fetienti!”.
Accompagnai Nadia fin sotto al portone, sotto gli sguardi dell’intero condominio, che probabilmente sapevano di me morte e miracoli, e qui, fregandomene del mondo intero, le dissi a alta voce “Buona notte amore”.
Per tutta risposta Nadia quasi urlò “No, non è possibile, oh Dio, oh Dio, fa che non sia vero!” e presomi per mano mi trascinò di corsa verso il cinquino.
Io la guardavo stralunato e lei “Non ce l’ho con te amore, ma ho avuto una intuizione, anzi una bruttissima intuizione e non riuscirei a dormire senza avertene parlato”.
“Grazie tesoro mio, la tua sollecitudine mi conforta, così saremo in due a non dormire; orsù dimmi quale triste pensiero ha sfiorato la tua…”.
“No, Popò, si tratta di Lojacono ed è una cosa seria, un pensiero agghiacciante. Ti ricordi quando mi dicesti che avevi trovato a casa sua le foto di quei bambini, dei suoi allievi, quasi nascoste, anche se non ne capivi il motivo? Perché le teneva chiuse in libreria invece che sulla credenza o sul tavolo? Popò, e se Lojacono avesse fatto del male a qualcuno dei suoi allievi?”.
Rimasi a bocca aperta mentre cercavo di comprendere dove voleva andare a parare Nadia.
“Male in che modo?”.
“Popò, hai capito bene! Se Lojacono avesse allungato le mani su qualche bambino…”.
“Oh Dio! Non è possibile! No, è un’idea troppo… sporca. Al solo pensiero mi viene da vomitare”.
“Popò amore, comincia a farci l’abitudine a questi pensieri se vuoi fare l’investigatore”.
“Ma il giorno prima dell’uccisione, Lojacono era andato a Licola con la signora Letizia e poi si era incontrato con il marito…”.
“E poche ore dopo è morto – intervenne Nadia –, come se l’assassino avesse voluto approfittare dell’occasione”.
“Ma come faceva a sapere… Bene, sei riuscita a sconvolgermi, anche se penso che la tua sia una congettura campata in aria, anzi lo spero; se la Polizia fosse stata più solerte nell’ispezionare la casa di Lojacono e avesse trovato le foto come le ho trovate io, certamente avrebbe seguito anche la pista che suggerisci. Mah, domani, a mente fresca, decideremo il da farsi”.

***

Eravamo seduti da Gambrinus, domenica verso le 11; la folla era strabocchevole. I camerieri giravano tra i tavoli con la consueta abilità.
Ovviamente, avevamo ripreso la discussione ed eravamo d’accordo su alcuni punti base:
- tenere all’oscuro Scognamiglio, almeno per il momento;
- indagare presso la scuola Barbato dove aveva insegnato negli ultimi anni Lojacono, prima di andare in pensione e poi passare a miglior vita.
“Quando hai fatto l’iscrizione all’Università ti hanno rilasciato un tesserino o qualcosa che ti identifichi come studentessa universitaria?”.
“Certo, ho un tesserino con il numero di matricola”.
Assunsi un tono pomposo: “Il giornale della facoltà di Giurisprudenza, con il quale collabori, ha in corso un’inchiesta  circa la frequenza alla scuola dell’obbligo degli alunni delle zone periferiche, anche al fine di stabilire la incidenza, favorevole o meno, delle nuove materie e dei metodi di insegnamento adottati dalle strutture di più recente apertura e maggiormente all’avanguardia”.
“Come la Barbato, inaugurata non più di cinque o sei anni fa – concluse Nadia –; chiederò al Preside di poter visionare le foto di gruppo delle varie classi in questi anni. Potremmo trovare qualche collegamento con le foto di Lojacono. E’ probabile che si procurasse le lezioni private proprio nella scuola dove insegnava musica. A proposito, bisogna recuperare le fotografie”.
“Questo non è un problema; visto che purtroppo mi sono fidanzato, vorrò dare un’altra occhiata alla casa di Lojacono che non è stata ancora venduta, con grande felicità di donna Filomena, ah ah ah”. 
“Sig. Purtroppo, posso venire con lei, povera vittima?”.
“Glielo concedo, anzi credo che sia necessario! Domani che non hai lezione, quando vuoi andiamo al palazzo. Ora, invece, ho un piccolo problema. Stamattina mi ha telefonato mia madre, accusandomi di mancare da casa da più di un mese e che sono questo e quello. Mi ha preparato la pasta al forno e guai a me se oggi non vado a casa  loro”.
“E dov’è il problema?”.
“Ecco, ultimamente ho aderito alla disciplina stoica per cui credo fermamente nel valore del dolore e della sofferenza… – Nadia mi guardava come se fossi un alieno – … per cui pensavo che, caso mai, potevi accompagnarmi in modo da compromettermi del tutto e rovinarmi la piazza che mi ero faticosamente conquistato. Ecco!”. 
“Sei l’essere più stronzo, infido, perfido e presuntuoso che abbia mai conosciuto. A questo punto sai che ti dico? Che ci vengo e anche attrezzata con tanto di cartello “fidanzata” sul petto!” .
“Petto, seno, zizze, sì, sì…”.
“Smettila di fissarmele ché sennò saltiamo il pranzo dai tuoi. Per il… dolce ci tocca aspettare a stasera”.

***

Avevo avvisato donna Filomena della visita.
“Donna Filomena, buongiorno, vi...”.
Era tutta vestita a festa, compreso il cappellino in testa con una veletta nera! Ero commosso e sbalordito ed ero rimasto senza parole. Nadia mi spinse dentro.
“Donna Filomena, che piacere conoscervi, Napo mi ha parlato tanto di voi e di vostro marito.”.
“Ahhhhhhhhhh, signorina che onore che ci fate; si accomoderebbe; questo è mio marito Pasquale”.
Anche Pasquale s’era messo in ghingheri con giacca e cravatta!!
“Piacere Sig. Pasquale”.
“Speriamo che non parta la dentiera!”  pensai.
“Il nostro Raggiuniere è molto fortunato, auft auft, accomodatevi”.
Il tavolo era già preparato per il caffè e oltre al piatto di biscotti c’era anche una torta.
Passò la prima mezzora tra convenevoli a senso unico, cioè parlava solo Filomena, facendo le mie lodi sperticate; di come avessi sistemato il condominio ecc.ecc., tralasciando gli ultimi avvenimenti, forse perché credeva che Nadia non ne sapesse niente.
Insomma dopo un ottimo caffè, una decina di biscotti e due fette di torta, avemmo le chiavi.
Bastarono pochi minuti per recuperare il faldoncino con le foto che finì nella tasca interna, appositamente preparata, della larga gonna a jeans di Nadia.
“Cara Donna Filomena, aveva ragione Napo, la casa è troppo buia…” disse Nadia, restituendole le chiavi.
“E’ vero signurì, è proprio scura scura; llà dint ‘o sole nun ce trase mai; non importa, ora se ci volete fare l’onore di rimanere a pranzo con noi…?”.
“Magari donna Filumè, magari, ma oggi ci aspettano i miei genitori e siamo già in ritardo; ma non mancherà occasione; Napo mi ha detto che siete un’ottima cucinera”.
Pareva che la gioia o i complimenti le facessero male; più sorrideva e più brutta diventava, povera Filomena.
“E’ stato ‘nu piacere grandissimo signurì, faciteve vedé ampresso”.
“Vi aspettiamo a pranzo, auft auft.”. Pasquale era addiritura commosso.
Appena in salvo, diressi il cinquino verso via Marina.
“Senti, baccalà, che ne dici se passiamo alla Fiorentina e accattiamo una bella guantiera di paste e ci appresentiamo a casa tua, senza invito, così evito di cucinare! Tanto, oramai lo sanno anche le pietre che stiamo insieme.”.
“Dico che sei il mio pazzo preferito, amore mio”.
 
***
 
Gli allievi erano sette, quattro bambine e tre bambini, ritratti mentre suonavano il violino; fra tutti spiccava la biondina di una decina d’anni, stupenda con i lunghi capelli d’oro che le arrivavano alla schiena, immortalata più degli altri in varie pose assolutamente innocenti.
“E ora non ci resta che aspettare che riapra la scuola”, sentenziai mentre accarezzavo dolcemente un seno di Nadia, nuda sul mio letto.
“Sì, aspettiamo, aspettiamo…”.

***

Eravamo a metà settembre quando decidemmo per la sortita alla Barbato, sperando che il Preside non pensasse di chiamare l’Università per avere notizie del giornale della Facoltà di Giuriprudenza che, detto tra di noi, non sapevamo nemmeno se esistesse.
Alle nove e mezza l’ordine regnava sovrano in tutta la scuola, bella, moderna e pulita.
Dopo pochi minuti di attesa, ci ricevette il Preside, Prof. Casimiro Concione, che ci apparve subito di una pesantezza e di una pedanteria fuori dell’ordinario; ma forse era d’aiuto.
Infatti, si perse subito in una sperticata lode della sua abilità di incisore delle “tabulae rasae” dei cervelli dei piccoli fortunati allievi che accompagnava dall’infanzia alla terza media. A dire il vero, magnificò anche il corpo insegnanti che, sotto la sua impareggiabile guida, aveva contribuito a quello che si poteva ritenere un vero successo: alla Barbato, per la prima volta in Campania, gli alunni delle medie studiavano anche la lingua inglese, due ore alla settimana.
E lo disse gonfiando il petto per l’orgoglio, a mio avviso giustificato. Infatti, al di là della pedanteria, il Preside era una persona colta e di larghe vedute.
Non dovemmo neanche chiedere le foto di gruppo di fine anno che apparvero come d’incanto sul tavolo della sala dei professori, dove ci aveva ricevuto.
La Barbato aveva cinque anni ed il Preside era – giustamente – orgoglioso di mostrare l’evoluzione dei giovani virgulti affidati alle sue cure.
Avevamo mandato a memoria i volti dei bambini allievi di Lojacono e non ci fu difficile riconoscerli nelle varie classi, dalle elementari alle medie. 
Ma nella sezione “B”, nella foto di gruppo della quinta elementare, non c’era più la biondina; né in quella della prima media.
“Quant’è bella questa bambina! – disse Nadia indicando la biondina nella foto della quarta elementare  – Come mai non c’è l’anno successivo e quello dopo?”.
“Bella e sfortunata – si intristì il Preside – la povera Nicoletta De Matteis; la mamma, vedova, non aveva che lei e non viveva che per lei, quando si è ammalata. Poveretta, a volte il destino sa essere infame”.
“E’ morta?!” fece Nadia.
“Magari – rispose il Preside –, la malattia l’ha ridotta come un vegetale; la madre sembrava impazzita. Abitava qui vicino al n. 35 del Rione Bisignano. La poverina ha speso tutti i suoi risparmi per cercare inutilmente di guarirla e, alla fine, ha dovuto lasciare la casa in fitto e trasferirsi a Maddaloni, dalla sorella”.
Mi sentivo un verme ma avevamo cominciato e dovevamo andare fino in fondo, anche se speravo di cuore che fosse la strada sbagliata.
“Senta Preside – intervenni – come si chiamava la madre? Questa storia è davvero commovente e se la portiamo all’Università…”.
“Di Costanzo Anna”.
Una allegra intervista  era finita sotto una cappa di tristezza infinita. Era ora di andare via. Ci congratulammo con il Preside al quale promettemmo una copia dell’articolo che non avremmo mai scritto e uscimmo fuori, all’aria aperta.
Nadia piangeva senza ritegno e continuava a ripetere “si è ammalata, si è ammalata...”.
Sull’elenco telefonico di Maddaloni c’era un solo Di Costanzo, anzi una, Di Costanzo Mena, a via Alturi n. 12.    
Decidemmo che saremmo andati a trovare la sig.ra Anna la domenica successiva.

***

“Nicò, è pronto ‘o pulmino? Nadia domani ha lezione e gli serve”.
Era lunedì mattina e alle 10 passate l’amico mio carrozziere si era deciso ad aprire bottega.
“Popò, vieni a vedere che splendore”. E mi fece entrare nello spazio a cielo aperto dietro l’officina, dove c’era di tutto, dalle auto riparate a vecchie carcasse utili solo come pezzi di ricambio. Effettivamente, il pulmino di Nadia sembrava ringiovanito di un po’ di anni tanto era splendente, ma era il colore, anzi i colori, che aveva adoperato Nicola che mi lasciarono perplesso: il tetto, i laterali fino a metà e la parte davanti a spigolo verso la targa erano verde, verde pisello, mentre la parte sottostante bianco sporco, quasi rosa!
“Stavolta mi ammazza” pensai.     
“Nicò, ma dove li hai presi ‘sti colori!? T’avevo detto bianco e rosso e non verde; e poi ‘sto bianco mi pare più rosa che bianco”.
“Popò, mi hai detto di sparagnà e io per aiutare Nadia ho usato i colori che tenevo già, che m’erano avanzati e non ce li faccio pagà. Insomma tutta la riparazione viene 60.000 lire, e ne teneva di bozze, botte e punti di ruggine... E poi non dimenticare che ho dovuto dare 10.000 lire a quello che ha rifatto la scritta “Scuola Nautica Scirocco” in nero, come era prima. Mio fratello Gennaro ha detto che ‘o motore è spompato. Insomma, ‘sto cesso di pulmino è arrivato e prima o poi si assetta in terra e amen. Guarda cca Popò, la settimana scorsa Russo, chillo de macchine ‘e blocco, mi ha portato ‘sto Transit”.
E mi indicò un rottame giallo con tutta la parte posteriore completamente sfondata che, prima, io, povero ignorante, avevo scambiato… per un rottame giallo! 
“Nicò, ma quello è un rottame!”.
“Popò, tu di macchine non ne capisci niente; chille tene tutta ‘a parte anteriore sana, compreso  ‘o motore, che tene sule 80.000 chilometri; sto aspettando che mi procurano ‘na scocca ‘e Transit ca ave fuso ‘o motore e da due ne faccio uno buono”.
“Nicò, ma poi lo devi portare alla Motorizzazione per il collaudo…”.
“Popò che cazzo dici; si ‘o porto alla Motorizzazione ‘o cullaudo non mo dà nisciuno; noooo, esce ‘a cca dint ca scocca sana e ‘o motore ‘e chillu rottame giallo; chi se ne accorge?!”.
Niente; non era possibile fare entrare nella testa di Nicola che esistevano delle regole che andavano rispettate, anche per motivi di sicurezza.
Pagai Nicola, lo ringraziai e mi presi il pulmino e mi diressi a casa di Nadia.
L’aspettai temendo il peggio, ma quando vide il pulmino gridò “Quant’è bello e che colori!!”. Crebbe in me la convinzione che nessuno al mondo avrebbe mai potuto capire le donne!
Non fu una settimana semplice, anche perché c’era la riunione di condominio per la nomina del nuovo Amministratore. Ero curioso di vedere come si sarebbero comportati i condomini, la maggior parte dei quali erano persone per bene.
Era fissata per le sei di sera, come al solito nell’androne della scala A.
C’era Pasquale che aveva preparato il tavolino con la sedia che occupavo io e poi c’erano Don Guglielmo e la Pirata. E nessun’altro.
“Buona sera a tutti” esordii.
“Buona sera Raggiuniè” fece Don Guglielmo, mentre la Pirata non disse una parola.
Don Pasquale stava con una faccia triste.
A quel punto si presentò un’altra persona che disse di chiamarsi Nicola Testa.
“Mbè, sono le sei e mezza quasi. Pascà, come mai non c’è nessuno dei condomini; ti dispiace chiamarli e chiedere se scendono?”.
“Non ce n’è bisogno Raggiuniè – intervenne Don Guglielmo –: ho le deleghe di tutti”. E mi diede un paccotto enorme di fogli.
Don Guglielmo non sapeva che non poteva rappresentare da solo tutti i condomini ma io non avevo più nessuna voglia di combattere per della gente che, a quanto pareva, aveva accettato a testa bassa le condizioni imposte dal “guappo” e non avevano neanche avuto il coraggio di presentarsi in assemblea.
Esaminai le deleghe, una per una, e le trascrissi sul libro dei verbali: tutti, nessuno escluso delegavano Don Guglielmo, con tanto di data e firma.
“Sta bene – dissi – la riunione può cominciare. Il Presidente è necessariamente Don Guglielmo e il segretario lo può fare il signore qui presente”.
La farsa durò pochi minuti: io diedi le dimissioni che vennero accettate e l’assemblea, all’unanimità, nominò come nuovo amministratore il sig. Nicola Testa che, presente, accettò. Stabilimmo il passaggio di consegne nei successivi quindici giorni.
Don Guglielmo accennò un buonasera e se ne andò con il nuovo Amministratore e la Pirata che aveva una faccia sorridente e soddisfatta.
Era rimasto solo Pasquale, tutto triste. Povero Pasqualino, mi voleva veramente bene.
“Pascà, non ti preoccupare, attacca ‘o ciuccio addò vò ‘o padrone! Hai visto che nessuno ha avuto il coraggio di presentarsi in assemblea? Allora se lo meritano a Don Guglielmo!”. 
“Raggiuniè, auft auft, mo chissà che ce succede”.
“Pascà, tra pochi anni maturi la pensione e ve ne potete tornare al paese vostro. Coraggio. Ciao Pasqualì, salutami a donna Filomena”. E l’abbracciai.
Pasquale si mise a piangere, commosso e io me ne andai, schifato per il comportamento dei condomini.
Ma che ti credevi, fessacchiò, che quelli si rivoltavano a Don Guglielmo per favorire te?!”, cominciò il mio solito io.
Sì, ci credevo, almeno un po’; almeno per qualcuno di loro, e non per favorire me, stronzo, ma per emancipare loro stessi, per scrollarsi di dosso ‘sto servilismo assurdo, fuori tempo. Ma evidentemente mi sbagliavo”.
“Popò, amore mio – fece Nadia più tardi a casa mia – tu ci hai perso solo qualcosa di soldi; loro quella dignità che avevi cercato di dargli e che li trasformava da pecore in persone e che era un bene molto più prezioso. Mi dispiace solo per Pasquale e Filomena. Mo scaccia i pensieri tristi e accendiamo le stelle sul soffitto…”.
 
***

Domenica, in tarda mattinata, partimmo con il cinquino verso Maddaloni.
Erano passate le due quando arrivammo a via Alturi n. 12. Era un piccolo fabbricato di quattro piani; di vecchia costruzione ma ben tenuto. Sul citofono c’era Di Costanzo Mena, piano 2°.
Ci guardammo in faccia e io suonai.
Si affacciò una signora di mezz’età.
“Signora Di Costanzo? – fece Nadia – ci può ricevere? Veniamo dalla Barbato”.
La signora non disse una parola e aprì il portone d’ingresso.
Salimmo al secondo piano e la signora Di Costanzo ci fece accomodare in una sala arredata con mobili vecchi ma lucidati a specchio.
Da vicino, si vedeva che era stata una donna molto bella, ma aveva il viso distrutto e gli occhi, azzurro mare, spenti.
“Signora, noi apparteniamo alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli e stiamo facendo un’inchiesta sulle nuove scuole e…”.
“Signurì, a me non c’è bisogno di raccontare fesserie; conosco già voi e il Ragioniere che vi accompagna. Accomodatevi che vi preparo il caffè e poi parliamo…”.
Nadia e io ci guardammo stralunati!
Arrivò il vassoio con il caffè e Anna Di Costanzo si sedette con noi.
“Allora – aprì il discorso – cosa volete da me e, per favore, non raccontatemi fesserie”
“Come fate a conoscerci se è la prima volta che ci vediamo”, attaccai io.
“Non ha importanza, credetemi”.
Nessuno si decideva a parlare e passarono così alcuni minuti, sorseggiando il caffè, con il cervello che lavorava a mille, senza arrivare a nessuna conclusione.
“Va bene – dissi io –: signora Anna, mi consente di chiamarla così, vero? Noi crediamo che voi abbiate ucciso il sig. Lojacono per quello che ha fatto a Nicoletta, vostra figlia”.
“Ma voi siete pazzi! Come vi è venuta in mente una cosa simile? A chi avete raccontato ‘sta favola?!”.
“Ecco vedete – fece Nadia –: non solo sapete chi era Lojacono e che è morto, ma siete preoccupata perché non sapete a chi abbiamo raccontato la… favola, come la chiamate voi”.
“State sbagliando, non sono preoccupata di niente; tutti sanno della morte del prof. Lojacono, stava su tutti i giornali ma, nella mia condizione, temo qualsiasi cosa che possa disturbare la tranquillità di mia figlia che è molto malata”.
“Cara signora – continuai io – noi sappiamo che Lojacono dava lezioni di violino a Nicoletta e della improvvisa… malattia; ma quello che ci ha spinto a venire da voi sono state queste foto che abbiamo trovato nascoste a casa del professore”.
E misi sul tavolo le foto di Nicoletta che suonava il violino, e solo quelle.
Poteva continuare a dirci che eravamo pazzi; quelle foto non rappresentavano certo una prova e noi non avevamo detto niente a nessuno, anche se lei non lo sapeva.
Invece, crollò: un urlo silenzioso e disumano ci avvolse con una disperazione che andava ben oltre qualsiasi morte, ripetuta all’infinito, giorno dopo giorno, come infinito era il dolore che deformava quel viso una volta bello.
Si alzò e si avvicinò barcollando alla credenza; aprì un tiretto e tirò fuori la pistola, la calibro 22 con il silenziatore.
“Fermi dove siete; non voglio farvi del male ma adesso mia figlia e io ce ne andremo per sempre… dove niente ci potrà più toccare, neanche quel Dio che non esiste e non è mai esistito… e voi non me lo impedirete”.
D’istinto mi lanciai addosso alla signora acchiappandole il braccio con tutte e due le mani. La pistola sparò un colpo che frantumò il piede della credenza e poi per il contraccolpo le sfuggì di mano.
La raccolse Nadia che tremava come una foglia.
Io ero illeso: avevo un angelo custode con le spalle larghe.
“Questa la prendo io!”, dissi dopo aver fatto sedere la signora Anna che oramai non reagiva più.
“Nicoletta si sarà spaventata con tutto questo fracasso?!”. disse Nadia.
“Venite con me”.
La seguimmo nel corridoio e lei aprì una porta a sinistra e entrammo in una cameretta dove seduta sulla moquette c’era Nicoletta, ormai dodicenne, bellissima con i capelli d’oro che le carezzavano le spalle fino alla schiena. Non si voltò al nostro ingresso e rimase a fissare un punto sulla parete con i suoi occhi verdi e spenti. Non aveva sentito niente oppure la cosa l’aveva lasciata indifferente, interessata unicamente al suo mondo… sulla parete.
Nadia cadde in ginocchio e inizio a piangere, sommessamente, ma non riusciva a trattenersi.
La aiutai ad alzarsi e tornammo nella sala.
“Nicoletta non si è spaventata; niente più la spaventa da quel maledetto giorno che la lasciai sola a casa con… con …”.
Si era, per così dire, un po’ calmata e forse era anche contenta di liberarsi di quel fardello e, senza che le avessimo chiesto niente, cominciò a raccontare.
“Quando tornai a casa, quel maledetto giorno, trovai Nicoletta tutta sporca di sangue, mentre il vigliacco se ne era scappato. Capii in un attimo quello che era successo, e telefonai immediatamente a mio cognato, medico, che abitava a due isolati da noi. Medicò Nicoletta, le fece un’iniezione per farla riposare e la mise a letto, ma era spaventato. Mi disse che aveva subito uno choc molto forte e che potevano esserci delle conseguenze e voleva chiamare la Polizia. Lo fermai, dicendogli che la Polizia non l’avrebbe certo aiutata in quel momento e che non volevo che la cosa si sapesse in giro. Il giorno dopo, Felice, mio cognato, tornò da noi a prima mattina e cambiò la medicazione a Nicoletta, ma lei non parlava e non sorrideva e non piangeva e non ci guardava: non c’era più!!”.
Le lacrime le scorrevano silenziose sulle guance scavate.
“Mio marito era colonnello dell’esercito. Lavorava per i servizi segreti e morì in missione che Nicoletta aveva due anni. Ho, anzi avevo, un’ottima pensione e negli ultimi due anni ho girato mezz’Europa, facendo debiti a destra e sinistra; tante promesse e nessun risultato. Nicoletta è un… ”.Forse voleva dire vegetale ma non ne ebbe il coraggio.
“Mio cognato voleva che denunciassi Lojacono. E perché, cosa gli avrebbero fatto a quel maiale? Mi informai con cautela e seppi che con la durata dei processi se la sarebbe cavata con poco o niente. No! Quando mi resi conto che per mia figlia non c’erano speranze decisi che doveva pagare di persona. La pistola che mi avete preso era di mio marito. Ho aspettato con pazienza l’occasione buona e ho ucciso quell’essere schifoso. Non ho rimorsi e mi dispiace solo che ha vissuto per altri due anni. Ora, se volete, chiamiamo la Polizia”.
Nadia stava distrutta sulla sedia, continuando a piangere in silenzio.
“E no, signò. La state facendo un po’ troppo facile”.
Mi sentivo e non credevo a quello che sentivo.
“Innanzitutto, questa vostra fretta di chiamare la Polizia e confessare mi conferma, ma già ne ero certo prima, che non avete fatto tutto da sola; non avreste potuto, e adesso volete coprire il vostro complice, forse vostro cognato. Poi, quella donna che sta seduta vicino a voi e che continua a piangere non me lo perdonerebbe mai se adesso io chiamassi la Polizia e vi facessi arrestare per un omicidio che, forse, dico forse, ognuno di noi avrebbe commesso. Oggi non me la sento di ricorrere alla legge degli uomini, quella che mi hanno insegnato a rispettare a tutti i costi; ma c’è un limite a tutto e io il mio l’ho superato guardando Nicoletta. No, signora, non saremo noi a toglierle la mamma. Se e quando vorrete, sarete voi a liberare la vostra coscienza. Queste sono tutte le foto di vostra figlia che stavano nascoste a casa di Lojacono; non ce ne sono altre e nessuno sa niente. La pistola… non so che fare con la pistola, non voglio lasciarvela perché ho paura per voi e Nicoletta e non posso diventare vostro complice buttandola a mare, perché la mia coscienza me lo impedisce…”.
“E datela a mme, Raggiuniè!”.
Dal corridoio entrò nella sala donna Filomena!
“Sì, Raggiuniè, Anna è mia sorella, la mia sorella gemella e adesso posso anche smettere di parlare come parla donna Filomena. Il resto della storia ve la racconto io.
Siamo gemelle monozigote, è incredibile vero? Eppure è così, io sono la maggiore. Lei bellissima e io di una bruttezza singolare. Eppure, mai per un momento nella nostra vita non ci siamo amate che moltissimo; siamo legatissime. Lei fece un gran bel matrimonio con il capitano, allora era capitano, De Matteis e nacque l’amore nostro, Nicoletta. Io trovai a Pasqualino mio; forse non è bello, non è molto intelligente o colto ma è buono e mi vuole bene veramente. E quando prendemmo il posto come portinai al palazzo, pensai che era meglio se donna Filomena, oltre a essere brutta fosse anche un po’ scema. Capirete, in quell’ambiente essere troppo intelligenti può essere pericoloso. E da qui il “Raggiuniè” con due gi e tutte le mattane che mi avete visto fare in questi anni.
Sono io la complice di mia sorella, anzi lei ha solo sparato. Quando successe la faccenda di Cammarota, pensai che era il momento giusto; ormai aspettavamo da un pezzo e quella merda doveva morire! Così, appena Cammarota se ne tornò a casa sua, telefonai a mia sorella per farla venire di corsa al condominio, che io avrei fatto scendere a Lojacono. Nel frattempo misi a Pasqualino alcune gocce di Valium nel caffè e il pover’uomo si addormentò come un sasso con la testa sul tavolo. Era poco prima di mezzanotte quando Anna mi raggiunse a casa e mi disse che non l’aveva vista nessuno. Dovete sapere che il porco aveva una Fiat 1100 Lusso, e quando ne parlava metteva l’accento su Lusso!, e da poco  aveva cambiato le gomme mettendoci quelle con la fascia bianca. Ci teneva a quella macchina in maniera esagerata: ogni sera la puliva con il piumino! Fu facile: lo chiamai al citofono dicendogli di scendere in garage perché alcuni “guaglioni” gli stavano rubando le gomme nuove. Scese di corsa e noi lo aspettavamo dietro l’androne, prima della porta del garage. Lo stonai con una mazzata sulla nuca e Anna gli sparò… dove doveva. Lei scappò fuori del palazzo e io, quando vidi che il porco “buttava sangue” come una fontana, me ne salii a casa mia. Mi lavai, portai Pasquale a letto e mi addormentai abbracciata a lui. Il resto lo sapete”.
“Datela a me la pistola per favore… se volete”.
Gliela porsi e lei prese dalla borsa un fazzoletto e la pulì tutta e anche il silenziatore.
“Ecco, così non ci sono le impronte corporali del sig. Raggiuniere e della sua signora”.
E fece un sorriso che era una dichiarazione d’amore nei confronti miei e di Nadia.
“Cara donna Filomena, non mi sembra possibile… insomma, fuori di casa vostra, vivete una seconda vita...”.
“Non mi adulate Ragioniè, è un semplice abito, come dice Eduardo”.
E ci accompagnò alla porta di casa dove ci abbracciò fortissimo, prima me e poi Nadia.
“Da domani, torna il Raggiuniè! Il vestito da fesso non è un abito facile, s’adda sapè purtà”.
Mano nella mano, Nadia e io, guardandoci negli occhi andammo a ripredere il cinquino.
Un mezzo sorriso mi attraversò il viso, mentre mi tornavano in mente i versi di Eduardo:
“Ci sta chi vuol vestire
con abiti sportivi,
e chi si vuoi sentire
nel classico. Perciò,
si fa il due petti grigio,
e quello blù da sera;
e per il pomeriggio
si sceglie un bel marrò.
Ci sta chi compra e mette int’ ‘o stipone
addirittura una collezione.
Per la caccia mi vesto così.
Per le corse mi metto colì.
E gli manca, vi giuro, un bel dì,
pure il tempo di fare pipì.
Io senza st’impaccio
riscuoto successo;
sapete che faccio?
Mi vesto da fesso.
Però, però… c’è un «ma»:
Non è un vestito facile…
s’adda sapè purtà!
La stoffa è delicata
e non si trova in giro.
La trama è complicata….
si tesse con l’età.
I fiocchi di filato
si trovano nel tempo;
nel tempo ch’è passato
e che non tornerà.
Ma quando te lo cuci su misura,
dovunque arrivi fai la tua figura.
Quell’amico ti parla così…
Quel nemico ti tratta colì…
Tu non parli; ti metti a sentì,
gli sorridi… e non dici di sì.
Ti togli lo sfizio,
riscuoti successo,
perché con giudizio
ti vesti da fesso.
Però, però… c’è un «ma»:
Non è un vestito facile…
s’adda sapè purtà!
Ce vò l’atteggiamento,
il gesto un po’ impacciato
ed un comportamento
svagato… E sai perchè?
Perchè ti metti a posto
non dando affidamento.
Insomma, ad ogni costo,
se sai, nun ‘j ha sapè.
Assumere lo sguardo un poco assente,
da fa’ capì ca nun capisce niente!
Chi ti dice: «È successo così».
Chi sostiene ch’è stato colì.
Tu, distratto, te miette a sentì,
senza dire di no, né di sì.
Ho visto che, in fondo,
riscuoto successo
vivendo nel mondo
vestito da fesso.
Però, però… c’è un «ma»:
Non è un vestito facile…
s’adda sapè purtà!
Popò Esposito Investigatore del Mare
FINE
 
L'OTTAVA PUNTATA
Tornato al sesto piano, dissi alla signora Concetta di rimanere chiusa in casa e di non affacciarsi; l’operaio, Fausto, se ne era già andato: la riparazione della pluviale doveva certo aspettare. Insieme a donna Filomena e a Pasquale ce ne scendemmo a casa loro.
“Signò – appena entrammo in casa – mo faciteme na tazza ‘e cafè come la sapete fare solo voi!”.
Tutti e due chiusero la porta come se volessero nascondersi o temessero l’arrivo di qualcuno.
“Ahhhhhhhhh”, l’urlo belluino mi mancava. “Raggiuniere mioooooo, avimmo passato nu guaio niro, niro assai... Ahhhhhhhhhhh... Madonna mia, San Gennaro, San Gioacchino, Sant’Anna…”.
Se non la fermavo si faceva tutto il calendario.
“Donna Filumè calmatevi, che c’entrate voi con la mano…”.
In quel momento si sentirono forti rumori, forse degli spari, venire dall’alto; urla e passi precipitosi per le scale; altri spari e un urlo di dolore.
“Donna Filumè, non vi avvicinate al balcone!” urlai.  
Dopo qualche minuto si sentirono le urla della Pirata che chiamava il figlio Gennarino e inveiva contro la Polizia.
Con molta attenzione mi affacciai al balcone e vidi “Gennarino”, un metro e novanta di delinquente, steso per terra che si manteneva il braccio destro ferito, mentre alcuni poliziotti lo tenevano sotto tiro; da lontano la sirena dell’ambulanza.
Un quarto d’ora dopo era tutto finito. Almeno credevo.
All’improvviso, bussarono alla porta.
La Pirata entrò come un fulmine e mi guardò con odio feroce.
“Raggiuniè, ho saccio ca avite chiamato vuie a Polizia! E o’ vero?!”.
“Certo che è vero, signò, perché secondo voi trovare una mano nella pluviale è ‘na cosa normale?”.
“E vuie che ne sapite cos’è normale e cosa no; aviveve chiammà a Don Guglielmo che sa spicciava isso che è n’ommo ‘e conseguenza!”.
“Signò, io conosco una sola Legge ed è quella dello Stato, che vi piaccia o no; poi rispetto tutti: voi, Don Guglielmo, ‘o spazzino, ‘o medico, tutti senza differenze, ma da tutti pretendo il rispetto che mi compete e non sono disposto a scendere a compromessi. E credo che non abbiate capito manco una parola di quello che ho detto, e vero?”.
La Pirata mi lanciò un ultimo sguardo d’odio e se ne andò.
“Ahhhhhhhhh” Raggiuniere mioooooo, mo avimmo passato nu guaio niro tutti quanti... Ahhhhhhhhhhh... Madonna mia…”. E si sedette sconsolata intorno al tavolo.
“Donna Filumè calmatevi, ché non ci sto a capire più niente; prima che succedesse il fattaccio della mano, Pasquale mi aveva chiesto di venire qui per parlare, non so di cosa. Mo raccontatemi tutto; però prima faciteme ‘nu cafè come lo sapete fare solo voi!”.
Tornò solo per un attimo una specie di sorriso; era meglio prima!
Ci sedemmo anch’io e Pasquale, intorno al tavolo della cucina.
Donna Filomena, messo il caffè sul fuoco e calmatasi un poco si sedette con noi.
“Raggiuniere mio, ieri mattina è arrivata ‘na macchina da Polizia e c'hanno purtato a tutti e due in Questura! Raggiuniere mio, che spavento; mi credevo ‘e murì per la paura e per la vergogna; tutto il Condominio affacciato; meno male che non c’hanno messo le manette!”.
Stava uscendo il caffè, così donna Filomena si dovette alzare, ma fu un secondo e ci ripensò.
“Pascà, appripara tu ‘o cafè per il Raggiuniere!”.
“Signò, calma calma raccontatemi tutto”.
“Ohhhhh Raggiunié, prima che ci purtassero via vi ho telefonato ma non c’eravate”. E si mise le mani nei capelli a dimostrare l’immensa disperazione che aveva causato la mia mancata risposta; quasi piangeva.
“Ma addò stavate Raggiunière mio! Avevamo tanto bisogno di voi!”.
“Signò, era domenica, non c’ero; ma io faccio l’Amministratore, mica l’Avvocato…”.
“Appunto, vuie site comme ‘o padre do fabbricato; quando succede ‘nu guaio ‘o padre se preoccupa per i figli!!”.
Era inutile contraddire: il Condominio aveva due guide: Don Guglielmo per i rapporti con i “loro simili” e la “giusta protezione” e l’Amministratore per tutte le beghe con il mondo dei “diversi”. E la Polizia era molto ma molto “diversa”, indubbiamente da temere.
E poco prima avevo imparato che, per alcuni, la guida era una sola.
“Vabbè, è successo; ora raccontatemi”. E finalmente riuscii a bermi il caffè.
“Allora, auft auft, appena entr…”
“Pascà, statte zitto e fa parlà a mme! Allora Raggiuniè, ci hanno portato in una stanza addò ce steveno sule quatto seggie; ce simm assettati e doppo mezzora si è affacciata ‘na guardia e ha fatto trasì sulo a mme dint ‘n’ata stanza. Ce steva ‘n’ata guardia assettata aret ‘na scrivania e ha accuminciato a farmi nu sacco ‘e dumande su Lojacono, o muorto acciso! E che vonno ’a me, aggio pensato; che c’entro io con Lojacono; a chille ce piacevano ’e femmene chiatte! Raggiuniè, stavo murenno da paura e nun riuscivo neanche a parlà; accuminciai a chiagnere e ‘a guardia me facette purtà ‘nu bicchiere d’acqua…”.
Stava per entrare in coma: non aveva ancora respirato; così la fermai.
“Signò, calma, non vi agitate; è evidente che voi non c’entrate niente con Lojacono, tant’è che vi hanno subito rilasciato, quindi…”.
“Raggiuniè, la fate facile vuie che site n’ommo ‘e legge; io stevo murenno pa paura; e se quelli si credevano che io ero l’amante di Lojacono? E se pensavano che Pasqualino mio, geluso cumm’è, l’aviva sparato? Accussì aggio cuntato tutte ’e fatti ’e Lojacono, chillu zuzzuso, muorto e buono!”.
“Brava, auft auft, mo stammo proprio in miezzo ‘e guaie! Auft auft, Raggiuniè, ha raccontato alla Polizia che Lojacono sa faceva, auft auft, cu chella zoccola della scala B e quelli ieri sera hanno arrestato ‘o marito! Avite capito, auft?!”.    
“E che dovevo fare? Tutto ‘o Condominio sape chello che è succieso chella sera!”.
“Ti dovevi fare i cazzi tuoi, auft…”.
E qui, per l’impeto, la dentiera invece di tornare al suo posto volò sulla tavola! E Pasquale ci si buttò sopra per nasconderla e se la rimise in bocca in tutta fretta.
Io feci finta di non essermi accorto di nulla, anche se lo stomaco protestava violentemente.
“Spiegatevi meglio” ripresi.
“Raggiunière mio, lo sapevano tutti che Lojacono se l’intendeva con la sig.ra Letizia, quella della scala B, ‘a mugliera ‘e Cammarota, l’ambulante. Succedette che il giorno prima che sparerebbero a Lojacono, Cammarota tornò all’improvviso e trovò che a casa non c’era nessuno. I due fetienti, una volta alla settimana, il mercoledì o il giovedì uscivano separatamente; essa tutta impernacchiata e isso sempe cumme a ‘nu muorto ‘e famme. Essa andava a piedi fino ‘n coppo o ponte, dove lui la raggiungeva e la faceva trasì int ’a machina. Tutto ‘o condominio sape che Lojacono tene affittata ‘na stanzulella a Licola. Quando tornò, la sig.ra Letizia truvaie ‘o marito che l’aspettava. Ma la cosa strana è che non succerette niente; io pensavo che minimo minimo chillo l’accereva; invece silenzio assoluto. Pochi minuti dopo s’arritirò Lojacono. Raggiuniere mio, la curiosità mi mangiava viva, così che stetti annascosta dietro la tenda da cammera da letto, chella che guarda dint’ all’androne. A nu cierto punto, erano quasi le otto ‘e sera, vedetti a Cammarota che asciuto dalla scala sua veniva dint’ ‘a scala nostra. Ecco, pensai, mo ‘o spara!!”.
Proprio quando doveva continuare, si interruppe e mi guardò fisso fisso con la bocca aperta.
“Mbè, e che succiese?”.
“Niente, Raggiuniè, proprio niente; poco dopo Cammarota se ne turnaie a casa sua. E la notte hanno acciso a Lojacono”.
“E mo, auft auft, hanno arrestato a Cammarota per colpa di mia moglie”.
“No, Pascà, tua moglie ha fatto il suo dovere; pensa se la Polizia pensava che era lei l’amante di Lojacono! Mo stavi tu in galera!”.
Era stato più forte di me; ma riuscire a non ridere mi costò uno sforzo tremendo, mascherato da colpi di tosse. Per alcuni secondi temetti seriamente che donna Filumena mi volesse saltare addosso per la gratitudine, ma per mia fortuna si trattenne.
“Vabbè, io me ne vado; Pascà, fra due o tre giorni chiedo il permesso di mettere a posto la pluviale, ma credo che sarà difficile trovare un operaio. Per favore chiedi in giro”.
Ero appena arrivato nell’androne quando vidi Don Guglielmo venire verso di me.
“Buongiorno Raggiuniè, mi consentite ‘na parola?”.
“Buongiorno a voi Don Guglielmo; certamente”.
“Raggiunié, avite sbagliato e m’avite mancato ‘e rispetto…”.
“Scusatemi se vi interrompo Don Guglielmo; suppongo che vi riferite alla questione della mano, è vero? ”.
Assentì con fare grave.
“Allora è proprio necessario scambiare qualche parola. Don Guglielmo, ve lo dico ora e non intendo ritornare più sopra l’argomento. Noi due apparteniamo a due mondi diversi, molto diversi. Io sono un uomo di legge e non riconosco la vostra autorità come “uomo d’onore”, come dite voi. Io vi rispetto come rispetto chiunque. Fin quando usate la vostra influenza nei limiti della legge per aiutare il condominio, come per il lavoro del ferraro, mi può anche stare bene, ma se pretendete da me quel “rispetto” che intendete voi per la posizione di autorità che rivestite nel vostro mondo, io quel rispetto non lo riconosco, non lo sento e non ve lo devo. Se ciò significa che devo lasciare il mio posto di Amministratore non fa niente; vorrà dire che alla prossima assemblea porterete un vostro fiduciario e gli cederò molto volentieri la carica”.
“Mo stammo a quattrocchi e ve rongo la mia stima, pecché site n’ommo e no nu quacquaracquà; però nun pozzo perdere ’a faccia annanz ‘o condominio, per cui facite ampresso l’assemblea. Stateve buono Raggiuniè!”.
Avevo perso il condominio.  
 
***
 
Tornavo a casa con i pensieri che vorticavano in testa: il condominio perso, la mano, Lojacono, Cammarota arrestato, quei poveracci di Pasquale e Filumena…
E c’era qualcosa che non tornava.
Misi a fare un sughetto per due rigatoni e già che c’ero ne feci quantità tripla, così da bastare anche per la serata con Nadia.
Il problema non era che non sapevo cucinare perché, ne ero convinto, sarei riuscito anche a imparare; ma a me cucinare non piaceva proprio, anzi peggio, mi deprimeva!
E così qualsiasi cosa mettessi sul fuoco si trasformava in un intingolo dai colori incerti, talvolta addirittura separati, da formare disegni surreali; ma il problema maggiore era il sapore!
Per il passato avevo avuto un’amica, donna cuciniera, che mi aveva confidato un “suo” segreto: qualsiasi pietanza si può sempre aggiustare con una sottiletta Kraft. E così, visto che mi veniva tutto ‘na schifezza, alla fine ci mettevo sempre una o due sottilette, con l’unico risultato di diventare un benemerito della Kraft. Può darsi anche che le diversità di colori dipendessero da loro, boh?!
La cosa che mi riusciva meglio era la salsa di pomodoro con i pelati, ma mi distrassi e misi due volte il sale: ero troppo preso dalle ultime vicende; non vedevo l’ora che arrivasse Nadia per raccontarle tutto.
Il pomeriggio lo dedicai alla contabilità di alcuni clienti e preparai la convocazione dell’assemblea per metà settembre. Come Dio volle si fecero le otto e sentii il pulmino di Nadia entrare nel cortile; poi un fracasso enorme.
Mi affacciai di corsa. Non aveva urtato, aveva semplicemente perso il paraurti anteriore.
“Ecco, brava, adesso ti do una mano ad appoggiarlo al muro, così lo eliminiamo una volta per tutte; sai, non vorrei che usassi ancora l’espediente che hai usato per conoscere me…”.
“Ringrazia che stai lassù! Vieni a darmi una mano, imbranato cronico, tu e il tuo carrozziere; bella riparazione mi ha fatto! Adesso prega di aver cucinato qualcosa di accettabile, altrimenti…”.
“No, no, non fare così; domani portiamo il pulmino da Nicola il carrozziere e glielo facciamo rimettere a posto; tanto, una saldatura in più o in meno… Scendo!”.
Mi ero quasi salvato in corner non mettendo il sale nella pasta, per cui il risultato, alla fine, era, diciamo, quasi accettabile, appena “saporito”. In compenso avevo preso una bottiglia di buon vino: Nadia reggeva l’alcol come un portuale, già lo sapevo, per cui non avevo motivi reconditi.
Le raccontai della pluviale, della mano e di tutto il resto fino alla discussione a quattrocchi con Don Guglielmo.
Era preoccupata per il figlio della Pirata; temeva che, appena uscito dall’ospedale o dalla galera, mi venisse a cercare per vendicarsi.
“Amore mio – le risposi – vengo da un paese dove i segnali stradali sono pieni di fori di proiettili e ai bambini, alla prima Comunione, qualcuno regala una pistola invece che un orologio. Non sono nessuno e voglio farmi strada nella vita, per cui la paura è un lusso che non mi posso permettere. Una ragione di più per avere il porto d’armi”.
Nadia mi guardava in silenzio, impaurita.
“La vuoi finire di fare quella faccia, menagramo! Ho qui una bottiglia da resuscitare i morti… ops che gaffe ah ah ah. Diamoci dentro che dopo ti violento!”.
“Smettila scemo e mi strinse forte, senza le braccia a martinetto”.
Tra un fusillo e l’altro: “A me la faccenda non torna – attaccai riferendomi a Lojacono –: perché Cammarota non ha massacrato di botte la moglie?! Perché a casa di Lojacono poco dopo non è successo niente?! Bisognerebbe essere scemi ad aspettare la notte per uccidere Lojacono, aggiungendo la premeditazione a quello che era un semplice delitto d’onore vecchia maniera”.
“Hai ragione, non ha senso. Io penso che quel povero fesso di Lojacono si sia fatto bello con la signora Letizia, dicendole di avere parecchi soldi da parte e che lei l’abbia detto al marito. In pratica, penso che Cammarota abbia raggiunto un accordo, diciamo, commerciale con il Lojacono: insomma gli ha “venduto” la moglie”.
“Quindi non aveva nessun motivo per farlo secco, almeno non prima di averlo prosciugato”, conclusi.
“E la mano? Può entrarci la mano con tutta la faccenda? Certo, la mano non era di Lojacono, ma lui potrebbe aver visto il figlio della Pirata che si portava a casa il… ricordino”, aggiunse Nadia.
“A me sembra impossibile che uno sia tanto fesso da portarsi a casa un ricordino del genere per poi buttarlo nella pluviale. Quello mi puzza più di avvertimento al figlio della Pirata. Basta così. Ti posso offrire un buon gelato da Fontana, come due turisti a spasso per Napoli, e la smettiamo per stasera con i morti e i feriti?”.
 
***
 
Agosto era finalmente arrivato, debitore di tutte le promesse fatte ai napoletani nei mesi invernali di una stagione unica, per una vacanza ristoratrice e meravigliosa.
E Agosto non era bugiardo; distribuiva equamente a tutti, ricchi, meno ricchi e poveri, un cielo sempre azzurro, un sole infuocato sin dalle prime ore del mattino e un mare luccicante di frescura.
Era arrivato il momento per la sospirata ricompensa e tutta Napoli si mobilitava. L’aristocrazia e l’alta borghesia per trasferirsi nelle residenze estive di Capri e Ischia o, i più fortunati, semplicemente aprendo il balcone sulla terrazza di una delle tante meravigliose ville patrizie lungo Capo Posillipo, con discesa a mare scavata nella roccia.
La media borghesia aveva anch’essa ampia scelta, tra il Bagno Elena all’inizio di Posillipo e, per chi poteva spendere, un posto nella meravigliosa villa Beck a Marechiaro, dove gli ombrelloni e le sdraio poggiavano sugli scogli lisci, a pochi passi dal mare e in vista della incredibile Isola della Gaiola.
Niente in assoluto era, però, paragonabile al “Lido Mappatella” o “Mappatella Beach”: in pratica ogni lembo possibile dove piantare un ombrellone e una “seggia” a sdraio lungo la via Caracciolo fino a Mergellina; spazi conquistati a viva forza ogni mattina da torme di aspiranti bagnanti che scendevano dall’autobus con ombrelloni e sedie a sdraio e la immancabile “Mappatella” contenente quel capolavoro di arte culinaria napoletana che era la frittata di maccheroni. Lo spettacolo, così abituale per i napoletani, non aveva simili al mondo: conquistato il posto e piazzato l’ombrellone o un ombrello da pioggia normale, magari il più grande possibile e legato a una ex mazza di scopa, il marito apriva la sedia a sdraio per fare accomodare la sua signora. Lei, sempre grassa, “scofanata” dalle numerose gravidanze, si piazzava all’ombra in sottoveste nera e metteva in mostra dei coscioni enormi e bianchi come il latte, sovrastati da un seno di proporzioni ultragiunoniche; lui, “sicco palicco” con lo stomaco attaccato alla spina dorsale, si accontentava dell’asciugamano steso per terra e teneva d’occhio la truppa di monelli scalmanati che, appena arrivati, completamente nudi o in mutande, si erano già lanciati in acqua tra urla festanti e risate.
Verso mezzogiorno non si trovava uno scoglio libero neanche a pagarlo, figurarsi un lembo di spiaggia, ma una decina di figurine urlanti, veri equilibristi, passavano tra corpo e corpo per proporre le loro mercanzie: il venditore di cocco urlava “Cocco, cocco bello, guagliò chiagnite che mammà vo accatta”; quello dei palloncini, ancora più in bilico per la imponenza del suo “negozio”, vantava “’o giocattolo ‘ca molla e senza ‘a molla”.
All’una il tempo magicamente si fermava, si affievolivano le urla e le risate e pochi minuti dopo l’aria si riempiva del silenzioso profumo ineffabile di migliaia di frittate di maccheroni.
Uno spettacolo che faceva bene al cuore: Agosto manteneva le sue promesse anche per i più poveri.
Erano tre anni ormai che non mi prendevo un giorno di ferie, anche perché non ne avevo mai sentito la necessità, in una città che, se appena appena mi guardavo intorno, mi regalava tutto ciò di cui potevo avere bisogno, sia per arrichire lo spirito che la carne.
Ma ora c’era Nadia e volevo qualcosa di diverso da dividere con lei.
 
***
 
Sabato 8 agosto, alle 10 in punto eravamo insieme in via Campegna, al Poligono di Tiro, dove chiedemmo di Francesco Russo, come dalle istruzioni di Scognamiglio.
La sera prima, Nadia e io avevamo avuto un’altra lunga discussione sull’opportunità di complicarci la vita con l’apertura di un’agenzia investigativa, per concludere che, comunque, quella del Poligono di Tiro era un’esperienza che valeva la pena di fare, anche per difesa personale, visti gli ultimi eventi.
Ci venne incontro Scognamiglio.
“Ciao Mario, che ci fai qui?”.
“Aspettavo proprio voi due per un caffè, ma prima andiamo da Francesco”.
Il consigliere ci salutò con grande cordialità, quasi fossimo vecchi amici; evidentemente Mario Scognamiglio era benvoluto, e ci diede una decina di moduli da compilare; aggiunse che avremmo iniziato a settembre, perché il Poligono chiudeva per quindici giorni di ferie. Nadia sembrò sollevata da quel rinvio e dopo una mezzoretta ci salutammo e andammo via insieme a Scognamiglio.
C’era un baretto poco più in là sulla strada, dove prendemmo posto per un caffè che si rivelò una vera “ciofeca”, per cui rinunciammo a ordinare qualcos’altro.
“E siamo al punto di partenza”, esordì Scognamiglio: “Cammarota è un pappone di merda ma non ha ucciso Lojacono”.
Oltre alle considerazioni che noi avevamo già fatto, aggiunse anche che le analisi di rito lo avevano scagionato del tutto.
Passammo, poi, a parlare della famosa mano e Scognamiglio ci aggiornò.
“Là è tutto più chiaro o quasi, e non credo proprio che c’entri qualcosa con Lojacono. La mano è stata spedita per posta al “povero Gennarino”: forse un avvertimento per uno sgarro, boh?! Il bisonte, poi, con l’intelligenza che lo contraddistingue, ha bene pensato di buttarla nella pluviale, così pensando che sarebbe finita nelle fogne. E così sarebbe stato se i suoi fratellini non avessero otturato la pluviale con gli stracci. La mano era di un vecchio piccoletto, quasi nano, ma qui ci siamo fermati perché mancavano tutte le falangi e non ci risultano cadaveri vecchi o nuovi senza una mano.
Gennarino, per sua fortuna, aveva ancora la scatola con la quale gli avevano spedito il regalino, così se la caverà con poco o niente. Dalla scatola non è risultato alcun indizio e amen: solita storia di rese di conti tra delinquenti da quattro soldi, forse nel campo dei furti d’auto o di altri reati minori”.
“E quindi – aggiunsi – ritorniamo alla prima ipotesi, e cioè che Lojacono, per caso o volontariamente, si è andato a ficcare in una situazione più grande di lui e gli hanno fatto la pelle”.
“E’ molto probabile – concluse Scognamiglio –, così come è probabile che l’omicidio verrà archiviato, insoluto come tanti altri in questa benedetta città”.
Ci lasciammo con l’augurio di reciproche buone ferie e l’arrivederci a settembre.
Stavamo col cinquino perché Nicola, il carrozziere, ci aveva promesso una specie di miracolo per il pullmino. Guidava Nadia e l’idea era quella di caricare Gelsy e andare a mare. In settimana Nadia mi aveva detto di avere dieci giorni liberi da lezioni intorno a ferragosto perché gli allievi non ci sarebbero stati. Dovevo assolutamente affrontare con lei il tema “vacanze”. La presi alla larga.
“Quest’anno le cose sono andate proprio benino, sai, credo di aver guadagnato un bel po’ di più dell’anno scorso, grazie sempre a Michele, il tabaccaio, che mi manda nuovi clienti. Ho pensato di aver diritto a una decina di giorni di ferie, ma di quelle serie, solo che a causa tua non ho nessuna da invitare”.
“Sei stronzo di tuo o ti impegni a fondo?” attaccò Nadia sorridendo ma non troppo. “Dove vuoi andare a parare? Anzi, prima che mi dimentico ho una bella notizia da darti; ho venduto l’Alizé e ho incassato la percentuale”.
“Hai venduto l’Alizè?! Mi ero innamorato di quella barca, avrei voluto… ma no!”.
“Comprarla tu?! Dai Popò, metti i piedi a terra e accontentiamoci di Gelsy. Allora, cosa stavi dicendo?”.
“Che mi posso permettere di spendere per una vacanza tutta speciale, ma non certo da solo. Vedi, per il non troppo modico prezzo di 200.000 lire ho trovato a noleggiare per dieci giorni un’Alpa 6, un po’ vecchiotta ma mi è sembrata ben tenuta. A questo punto avrei bisogno di qualcuno esperto che mi dica se è un bidone galleggiante o meno; e poi mi occorrerebbe anche un aiuto per portarla perché sono ancora alle prime armi; sai consigliarmi qualcuno?!”.
“Tu sei tutto pazzo amore mio!” ma gli occhi si erano accesi di quel nero riservato alle occasioni speciali.
Alle sette di sera stavamo ancora bordeggiando con Gelsy intorno al Castel dell’Ovo; avevamo scuffiato due volte e avevo un bernoccolo in fronte per avere incontrato l’albero che non si era scansato, ma la mente di entrambi vagava altrove. Mille domande che trovarono risposta solo a sera inoltrata: alla fine il piano prese forma, con la complicità di un’amica che l’avrebbe “invitata” a Ischia per il periodo e la mia solenne promessa di tenere le mani e quant’altro al loro posto.        
L’indomani, domenica, eravamo al Borgo Marinari a vedere l’Alpa.
Nadia, tra gli sguardi ammirati del vecchio armatore, ispezionò l’Alpa e il parere non fu dei migliori: era contenta della pulizia ma non troppo della manutenzione; provammo il fuoribordo, un vecchio Johnson di 5 cavalli e mezzo, che tossicchiando un po’ partì con qualche difficoltà. Le vele erano vecchie e sformate per l’uso, le sartie parevano a posto, mentre il timone a barra aveva un po’ troppo gioco. All’interno la cuscineria era consunta ma pulita, così il cucinino ad alcol e il pentolame: ci fece un po’ senso il bugliolo ma poi, ci dicemmo, avremmo usato il bagno “grande” intorno alla barca. Il tenderino di quasi due metri era sgonfio ma sano e con una sola pagaia.
Fatta cambusa, imbarcammo il 12 agosto e alle 11 mettemmo la prua su Capo Posillipo.
Era tutto un altro mondo; quella non era una deriva, come l’Alizè, ma un cabinato a vela: era molto più massiccia e diversa da governare ed era anche più invelata.
A mezzogiorno, puntuale con il bel tempo, arrivava la brezza da ovest, tesa fino a quindici nodi con il mare che si arricciava di mille “paparelle” bianche, luccicanti nel sole. La nostra “Maria”, così si chiamava l’Alpa, avanzava di bolina stretta con la falchetta (il bordo della barca) che a volte finiva sott’acqua e la crocetta dell’albero a sfiorare il mare: noi, sopravvento, puntavamo i piedi nel pozzetto, pronti a mollare la scotta della randa per evitare straorzate; filavamo a 5 o 6 nodi ed era una sensazione meravigliosa con gli spruzzi che ci accarezzavano la pelle e la sensazione di una libertà infinita, come i gabbiani che volavano alti. Demmo fondo poco oltre l’isola della Gaiola e, ammainate le vele, ci dedicammo alla mezza chilata di spaghetti da condire con un paio di scatolette di tonno. All’alba, in uno scenario di sogno, facemmo vela su Procida, e l’ancora scese gorgogliando nella bai

Inviaci un tuo commento!

(la tua email email non verrà pubblicata nel sito)
I dati personali trasmessi saranno trattati direttamente da A.S.D. WATERPOLO PEOPLE quale titolare del trattamento ed esclusivamente per lo scopo richiesto garantendo la riservatezza e la sicurezza dei dati.

I dati personali saranno conservati solo il tempo esclusivamente necessario. Ogni interessato può esercitare il diritto di avere informazioni sui propri dati ai sensi dell'art. 7 dlgs 196/2003.

La preghiamo quindi di fornire il suo consenso al trattamento dei dati cliccando sull'apposito riquadro.

* campi obbligatori
Attendere prego...

Grazie della collaborazione!
Il tuo commento è stato registrato in archivio e sarà visibile nel sito dopo l'approvazione amministrativa.

Ok